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Pellegrinaggio di giustizia
PELLEGRINAGGIO di GIUSTIZIA in TERRASANTA e TERRITORI OCCUPATI PALESTINESI
Come si è arrivati nel corso degli ultimi anni ad una forma di guerra silenziosa e legittimata tra lo Stato d’Israele e i Territori Occupati Palestinesi (o meglio dire quell’arcipelago di territorio chiamato West Bank o Cisgiordania nel linguaggio geopolitico)? Perché soltanto in occasione della visita ufficiale di Papa Benedetto XVI ad aprile qualche notizia in più, qualche immagine del muro alto più di 8 metri, è trapelata attraverso le nostre televisioni ed è giunta nelle nostre case? Com’è che dopo quasi un mese di bombardamenti ininterrotti, giorno e notte, sulla popolazione civile di Gaza, lo scorso gennaio (donne, bambini, anziani compresi), niente più ci è stato detto su come questa gente sopravvissuta ai quasi 1300 morti è riuscita a trovare la forza e il modo di continuare a vivere giorno dopo giorno?
Queste le domande martellanti che mi hanno motivata e spinta a decidere di andare e vedere quella terra, di incontrare quella gente. Lo scorso agosto con Anna, Mauro e Annalisa della nostra parrocchia siamo stati in quei luoghi assieme ad altre venti persone provenienti da altre città d’Italia.
“Pellegrinaggio di Giustizia”. Il nome, che Pax Christi ha dato a questo tipo di esperienza in Terrasanta, parla chiaro: non si tratta di un pellegrinaggio meramente religioso sui luoghi santi per eccellenza della nostra fede Cristiana, bensì di un’esperienza fatta di incontri, di conoscenza, di consapevolezza, di assunzione di responsabilità, di condivisione, di silenziosa preghiera, di impegno.
Nei Territori occupati militarmente da oltre quarant’anni ancora oggi ci sono check-point (punti di controllo) che ostacolano il normale svolgersi della vita quotidiana di uomini lavoratori, studenti universitari, insegnanti, medici, che impiegano quattro interminabili ore per giungere sul posto di lavoro, all’università, negli ospedali…donne che si ritrovano anche a dover partorire tra le sbarre dei corridoi di passaggio (e nelle situazioni più tragiche vedono morire i loro figli o loro stesse perdono la vita perché non sono giunte in tempo nell’ospedale al di là del muro o del filo spinato). Case ed interi villaggi distrutti divenuti ora parchi a pagamento per gite, scampagnate e pic-nic. Più di 700 km di muro di cemento alto oltre 8 metri. Otto metri: alzate gli occhi come a guardare una casa a tre piani! Barriere elettrificate di filo spinato, colonie israeliane che illegalmente insediano i terreni degli agricoltori dei villaggi palestinesi, ulivi secolari sradicati, espropri di terre…
Potrei continuare ancora nella descrizione di quanto i nostri occhi hanno visto ma non credo che sia soltanto questo elenco di soprusi e situazioni di negazione dei principali e inalienabili diritti dell’essere umano ciò che mi sento chiamata a testimoniare.
Palestinesi e Israeliani non hanno bisogno di ulteriori sentimenti di rabbia, rancore e risentimento, facili vie per alimentare pensieri e azioni di violenza, da noi, uomini e donne, voci dell’Occidente. Non hanno bisogno che la pace, parola a volte abusata e strumentalizzata, venga stabilita a tavolino dal politico o dai politici di turno... e quando il turno finisce di nuovo quella che essi definivano “pace” viene rimessa in discussione o assume le sembianze di un nuovo Piano Marshall. Perché in fondo per i nostri governi occidentali pare che solo stare bene economicamente sia indice e soluzione per la pace.
Abuna Raed, parroco di Taybeh (l’Efraim del Vangelo), villaggio di palestinesi cristiani, uomo e prete coraggioso e determinato, studioso ed esperto di Nonviolenza, non crede più in questa forma di pace. Egli ci ha parlato invece di RICONCILIAZIONE, quella che viene dall’incontro semplice e autentico tra la famiglia palestinese e quella israeliana, quell’incontro che fa sì che ci sia conoscenza vera, senza pregiudizi da una parte e dall’altra. Non è possibile una soluzione politico-militare a questo conflitto, e noi cittadini d’Europa, noi Cristiani soprattutto, non possiamo sottrarci al ruolo fondamentale che siamo chiamati ad avere in questa nuova riconciliazione.
Molti altri incontri hanno segnato il mio cuore durante questa settimana, un vero e proprio “terremoto di emozioni e sentimenti” che richiede un tempo adeguato di riflessione per far sedimentare.
Tra i tanti, voglio ricordare le due realtà alle quali abbiamo portato le offerte raccolte dalle nostre parrocchie di Bussolengo durante la scorsa Quaresima, Gaza e il Baby Caritas Hospital di Betlemme.
Abuna Manuel, parroco palestinese di Gaza, rimasto imprigionato nella Striscia con il suo popolo negli ultimi 14 anni ci ha straziato il cuore nel racconto dell’ atroce massacro dello scorso Gennaio. Gaza si è materializzata lì in mezzo a noi: nella fatica del pastore che è chiamato a predicare la Fede e la Carità a persone rimaste senza terra, lavoro, casa e neppure speranza. Ci parla di Hamas, del viaggio del Papa, di cosa ha significato per loro, delle case in polvere, delle sue paure personali che ogni giorno forzatamente allontanava per dare coraggio ai suoi. La commozione raggiunge il punto massimo quando dal telefonino ci fa ascoltare una sua preghiera messa in musica da un compositore irlandese.
Quella musica si fa preghiera condivisa per una terra in cui i sassi possono diventare violini, le pietre di rabbia note di speranza ( alla scuola di musica “Al Kamndjati” di Ramallah) e il pianto di Gaza un pianto di liberazione suonato da un telefonin
Suor Lucia e Suor Donatella del Baby Caritas Hospital. Anche a loro sono arrivate le nostre offerte, un po’ di farmaci e, con loro grande gioia: Grana Padano e Nutella! Unico ospedale pediatrico a Betlemme, nei Territori Occupati palestinesi, che offre assistenza gratuita. Ci raccontano la storia dell’ospedale, che non ha un reparto di chirurgia perché il suo fondatore ben sapeva, nel 1978, che a soli 6 km di distanza si trovavano gli ospedali di Gerusalemme ma non poteva prevedere che di lì a poco più di vent’anni un muro di 8 metri e un tecnologico check-point avrebbero ostacolato il passaggio di ambulanze e allungato di mesi il permesso a madri, bambini e neonati di poter accedere agli ospedali israeliani per poter essere curati. Da quel giorno, nel 2004, in cui quel muro è stato eretto, le nostre suore infaticabili vanno ogni venerdì, giorno santo dei Musulmani, al muro con un gruppo sempre più numeroso di persone a recitare il rosario davanti ai fucili dei soldati d’Israele. Il Muro si fa così Chiesa e Preghiera per quei bambini e quelle famiglie ai quali è tolta la possibilità di vedere il sole al tramonto.
Mossa prima della partenza da un sentimento di rabbia, mi ritrovo ora arricchita di speranza e di fiducia per il futuro di questa Terra “santa” proprio perché martoriata, ma allo stesso tempo impregnata della tenacia, del coraggio, dell’amore e della dignità di persone che hanno scelto di resistere senza seguire la via della violenza. Gruppi, associazioni civili e religiose palestinesi, israeliane e internazionali che non si fanno sopraffare dalla paura e dalla falsa sicurezza che muri, divisioni, indifferenza vorrebbero imporre.
“Non tornate nelle vostre case prendendo posizione né atteggiandovi a giudici imparziali, ma siate testimoni della sofferenza di questi popoli e non abbiate paura. Venite a vedere e vivere questa Terra”.
Queste le parole che tante delle persone incontrate ci hanno rivolto.
“Un vincitore è un sognatore che non si è mai arreso”, con queste parole di Nelson Mandela stampate sulla maglia di Federica, volontaria dell’Operazione Colomba, mi faccio portavoce di questo invito a voi che ora leggete le mie parole. Per chi vuol saperne di più:
www.paxchristi.it
www.infopal.it
www.operazionecolomba.org
Gloria
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